Italia: Quale Politica Estera?

 

C’è una notizia di questi ultimi giorni che è passata in sordina, sotto traccia, o che comunque non ha avuto il giusto rilievo che meritava e nemmeno una minima eco su buona parte dei nostri quotidiani. Si tratta della reazione dell’Australia, spiegata dal suo primo Ministro Scott Morrison, alla pesante repressione in atto a Hong Kong.

È ormai da poco più di un anno che i cittadini della ex colonia britannica, soprattutto i più giovani, hanno intensificato le loro proteste contro l’ingerenza cinese. Una pressione, quella del dragone, che di fatto intende abolire il patto che garantiva una buona dose di autonomia a Hong Kong, un accordo che si riassume nel motto “Un paese, due sistemi”. Una formula ben studiata che nel 1987 consentì il transito di Hong Kong dal protettorato britannico al dominio cinese, permettendole di mantenere un’economia di libero mercato con un sistema giuridico rispettato e riconosciuto a livello internazionale e concedendo alla Cina l’ultima parola in materia di affari esteri e difesa. Ma tale sistema nel tempo si è rivelato fragile, perché garantisce libertà praticamente impossibili nella Cina continentale.

Ed ecco che il fuoco della rivolta ha cominciato ad ardere, innescato dapprima dal controverso disegno di legge del governo di Hong Kong, guidato da Carrie Lam, che prevede pene detentive fino a tre anni per chi non rispetta l’inno nazionale cinese, poi dal varo di un pacchetto legislativo per modificare le regole in caso di estradizione e consentire l’invio di imputati in Cina continentale per il processo e infine dalla recentissima imposizione da parte della Cina della nuova legge di sicurezza nazionale che punisce gli atti di sovversione, secessione, terrorismo e collusione con le forze straniere compiuti nell’ex colonia britannica, non garantendo il rispetto dei diritti umani così come riconosciuti a livello internazionale. Insomma un lento, ma inesorabile percorso di cancellazione dello statuto autonomo di Hong Kong.

Centinaia sono state le proteste e le manifestazioni indette nell’ultimo anno nella metropoli orientale, mitigate solo in parte dall’irrompere dell’epidemia da coronavirus SarsCov2, e migliaia gli arresti di leader, attivisti o semplici manifestanti.

In questi mesi le continue e pesanti violazioni dei diritti umani hanno scatenato una reazione della comunità internazionale, ma si è andati poco oltre le dichiarazioni di rito da parte di Paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito, il Canada e l’Unione Europea. Spesso inoltre erano contaminate, soprattutto per quanto concerne l’amministrazione Trump, da una guerra commerciale e diplomatica con Pechino. È qui che il governo australiano ha deciso di passare dalle parole ai fatti, decidendo alcune misure che denotano una politica estera decisa e con una buona dose di responsabilità delle proprie azioni diplomatiche, data anche la vicinanza e l’interazione economica e commerciale tra i due paesi. Quindi l’Australia ha deciso di sospendere l’estradizione con la Cina; ha esteso a 5 anni il visto ai quasi diecimila cittadini di Hong Kong che lavorano o studiano li, aprendo di fatto la via alla cittadinanza, ha varato una serie di incentivi alle aziende che vogliano trasferirsi nel paese dei canguri. Inoltre il premier Morrison rivolgendosi ai suoi connazionali ha sconsigliato di recarsi a Hong Kong, perché «…è aumentato il rischio di essere arrestati per ragioni di sicurezza nazionale non ben definite …potreste infrangere la legge senza volerlo».  La reazione di Pechino non si è fatta attendere e infatti un portavoce dell’ambasciata a Camberra ha invitato l’Australia a smettere immediatamente di interferire negli affari di Hong Kong e nella politica interna cinese. Nel frattempo pure la Nuova Zelanda pare seguire l’esempio australiano stigmatizzando «…la decisione cinese di approvare una nuova legge di sicurezza nazionale che ha cambiato radicalmente lo scenario della presenza internazionale», almeno secondo le dichiarazioni del Vice Primo Ministro Winston Peters. Ora si attende un passo pure da parte del Regno Unito, che sembrerebbe disposto a concedere l’ingresso ai poco meno di 3 milioni di cittadini di Hong Kong con passaporto britannico.

Assordante il silenzio del nostro Paese, che in tema di politica estera non è mai stato particolarmente coraggioso tanto più con un partner commerciale importante come la Cina. Stupisce e lascia particolarmente delusi il fatto che la politica estera italiana sia altrettanto timida anche verso situazioni altrettanto importanti, gravi e che ci riguardano direttamente, come per esempio le nostre relazioni diplomatiche con l’Egitto alla luce del caso riguardante il rapimento e l’omicidio del ricercatore universitario Giulio Regeni. Infatti poco dopo l’emergere delle pesanti responsabilità dei servizi di informazione e sicurezza egiziani nella vicenda, l’Italia ha richiamato a Roma l’ambasciatore al Cairo (aprile 2016), perché l’Egitto avrebbe ostacolato a livello politico e giudiziario l’individuazione dei mandanti e degli autori del sequestro, della sparizione, delle torture e dell’uccisione di Giulio Regeni. Poi, il 14 agosto 2017, il nostro Paese ha deciso di ritirare questa unica misura di inimicizia diplomatica col Paese dei faraoni rimandando al Cairo il nostro ambasciatore. Decisione motivata dal fatto che la magistratura locale aveva dimostrato una maggiore propensione a collaborare con l’Italia e che la ripresa delle relazioni diplomatiche avrebbe accelerato e facilitato la ricerca della verità. Queste due ipotesi si sono rivelate estremamente ottimistiche, nulla più di due mere illusioni, dato che il Paese governato da Al Sisi non ha mostrato alcun interesse a far luce sulla vicenda, o semplicemente a fornire collaborazione alla magistratura e agli inquirenti italiani, distinguendosi nel rallentamento della macchina investigativa se non addirittura nel depistare le indagini.

Del resto l’attuale governo egiziano è nato esattamente 7 anni fa dopo un colpo di stato militare, guidato dall’attuale presidente Al Sisi, che ha rovesciato il governo legittimamente eletto del movimento dei Fratelli Musulmani e dell’impiccagione di 1200 loro dirigenti nel silenzio, pressoché totale della comunità internazionale. Da allora il Paese attraversato dal Nilo è peggiorato nel grado di rispetto dei diritti umani e secondo il sindacato dei giornalisti egiziani ci sono ben 16 loro colleghi imprigionati e almeno uno di loro, Mohamed Monir arrestato lo scorso 15 giugno per aver criticato la gestione della pandemia sull’emittente Al Jazeera, è morto dopo essersi contagiato con il coronavirus in prigione. L’organizzazione Reporter Senza Frontiere definisce l’Egitto come uno dei peggiori posti per i giornalisti, infatti è inserito al 166esimo posto nella classifica Press Freedom Index del 2020. Addirittura il clima è divenuto pesante anche per i medici che hanno denunciato una situazione più grave, rispetto ai dati ufficiali del governo, per l’epidemia Covid19 o che hanno semplicemente criticato il sistema sanitario denunciando pure una cronica mancanza di dispositivi di protezione individuale. Secondo i dati di Amnetsty International ben 8 operatori sanitari (6 medici e 2 farmacisti) sono stati arrestati arbitrariamente solo per aver espresso le loro preoccupazioni in merito sui social media. Per non parlare del recentissimo caso dello studente dell’università di Bologna Patrick George Zaky in carcere dal 7 febbraio scorso, quando si era recato in Egitto solo per far visita alla sua famiglia e che, sempre Amnesty International, considera un prigioniero di coscienza detenuto esclusivamente per il suo lavoro in favore dei diritti umani e per le opinioni politiche espresse sui social media.

Tutto ciò dovrebbe stimolare il nostro governo a sostenere un’attiva politica estera di continua pressione nei confronti del regime di Al Sisi, anche solo per rispetto della memoria di Giulio Regeni e della sua famiglia e invece sul piano dei rapporti diplomatici si registra ormai un’armonia fatta di incontri bilaterali sempre più fitti, forniture di armi, formazione, scambi commerciali ai massimi livelli, fino alla recente vendita di due fregate militari. Al termine di ogni incontro, lo stucchevole rito ipocrita del «…ho ricordato al mio interlocutore la vicenda di Giulio Regeni». Solo pochi giorni fa il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano ha dichiarato in un’intervista a Radio 24: «Non credo che il ritiro dell’ambasciatore sia una soluzione, non l’ho mai creduto per un semplice motivo: l’ambasciatore è sostanzialmente il rappresentante del suo Paese in un altro Paese. Se si toglie l’ambasciatore di fatto si finisce di dialogare, ma a noi interessa dialogare perché dobbiamo avere la verità su Regeni». Nutriamo qualche dubbio in merito, forse in tema di diritti umani basterebbe osservare la politica estera di altre nazioni, tipo quelle situate nell’altro emisfero.

© 2020  Pierstefano  Durantini

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