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Immaginiamo un peschereccio siciliano a largo di Lampedusa che sta gettando le sue reti. Gli uomini navigano da alcuni giorni, il lavoro è duro, la pesca è quella che è e la stanchezza è tanta. A un certo punto, in acque internazionali, li tra l’Africa e l’Europa, il peschereccio italiano incrocia a dritta un grosso mercantile battente bandiera libica. Forse per distrazione si avvicina troppo oppure perché non lascia acqua alla nave che viene da dritta, fatto sta che sul mercantile si allarmano, temono un attacco, un abbordaggio, stile pirati, da parte di predoni del mare. E allora sparano una, due raffiche di avvertimento verso il peschereccio. Complice la cattiva sorte o una mira di basso livello, ecco che due giovani pescatori siciliani vengano colpiti a morte.
Del resto qualcosa di simile è già accaduto poco più di un anno fa, allorché una motovedetta libica, addirittura frutto di un nostro generoso regalo che faceva parte di uno scellerato accordo col paese di Gheddafi volto al contrasto all’immigrazione clandestina, sparasse contro una barca della Guardia di Finanza italiana, fortunatamente senza gravi conseguenze. E purtroppo un accordo di questo tipo è stato pure recentemente rinnovato dal nostro Paese con la nuova amministrazione libica.
Ma torniamo ai due pescatori siciliani uccisi dalle raffiche partite dal mercantile libico. Chi penserebbe che i responsabili di questo omicidio, con troppa facilità e ben poco rispetto definito come uno spiacevole incidente, debbano essere processati in Libia, perché i proiettili sono stati sparati da una loro nave e non invece qui in Italia, Paese cui le vittime appartenevano?
Ebbene ora abbandoniamo l’immaginazione e torniamo alla realtà dei fatti, sostituiamo i ruoli e diamo a ciascuno il proprio nome. Il mercantile è italiano e si chiama Enrica Lexie, i due pescatori morti sono indiani e si chiamavano Ajesh Binki e Valentine Jelastine, coloro che hanno sparato, sicuramente senza alcuna intenzione omicida, sono i due fucilieri del Battaglione San Marco, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, che ora si dicono sinceramente dispiaciuti e addolorati per le morti causate.
Alla luce di quanto avvenuto, ma soprattutto quando in troppi qui in Italia affermano e urlano, con un’arroganza stile neocoloniale, che assolutamente non ci appartiene: «Riportiamo a casa i nostri ragazzi!», sorgono spontanee alcune domande: quanto vale una vita umana? C’è differenza se muore un indiano o un italiano? O forse stiamo diventando come gli statunitensi e gli inglesi? Che si sentono al disopra degli altri, sia quando sparano, in un blitz scellerato, causando la morte di un nostro connazionale rapito in Nigeria (Franco Lamolinara), o quando uccidono un poliziotto italiano in Iraq che sta riportando in patria una giornalista appena liberata (Nicola Calipari), o peggio ancora, quando durante un volo di esercitazione, un loro aereo militare trancia i cavi di una funivia al Cermis causando decine di morti innocenti.
Allora è vero che esistono due pesi e due misure, anche se stavolta le misure sono quelle di due bare. Lasciamo che la giustizia, si, anche quella indiana, faccia il suo corso evitando isterismi che niente hanno a che vedere col patriottismo, ma soprattutto quando facciamo imbarcare su navi private italiane dei nostri militari organizziamo bene le cose, chiariamogli le regole d’ingaggio, diciamogli come comportarsi in caso d’incidente, informiamo le altre nazioni di queste nostre scorte.
Insomma non mandiamoli allo sbaraglio col rischio che si caccino in un mare di guai e non dimentichiamo che anche i due pescatori indiani avevano una famiglia che li aspettava a casa.

©2012 Pierstefano Durantini

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