[cmsms_row data_width=”boxed” data_padding_left=”3″ data_padding_right=”3″ data_color=”default” data_bg_color=”#ffffff” data_bg_position=”top center” data_bg_repeat=”no-repeat” data_bg_attachment=”scroll” data_bg_size=”cover” data_bg_parallax_ratio=”0.5″ data_color_overlay=”#000000″ data_overlay_opacity=”50″ data_padding_top=”0″ data_padding_bottom=”50″][cmsms_column data_width=”1/1″][cmsms_image align=”none” animation_delay=”0″]189|http://www.pierstefanodurantini.it/wp-content/uploads/2018/03/1-Hunger-Strikers.jpg|full[/cmsms_image][cmsms_text animation_delay=”0″]

1 marzo 1981 – 5 maggio 1981. 66 lunghissimi giorni di totale astinenza da cibo. 66 giorni durante i quali il peso del proprio corpo diminuisce vertiginosamente, le forze svaniscono, i dolori sono lancinanti e gli occhi faticano sempre più a mettere a fuoco. 66 giorni durante i quali il fisico lotta con la morte, 66 giorni in cui la mente, lentamente, cede a sempre più frequenti disconnessioni. 66 passi, lenti ma inesorabili verso il coma prima e l’eterna notte poi. Il 1 marzo 1981, Bobby Sands e altri suoi 9 compagni incarcerati nei famigerati blocchi H del penitenziario di Long Kesh, in Irlanda del Nord, decisero di intraprendere uno sciopero della fame per protestare contro il mancato riconoscimento dello status di prigionieri politici, per le durissime condizioni carcerarie e per le brutalità perpetrate loro dai secondini.
Dopo l’esperienza del precedente sciopero della fame del settembre 1980, interrotto dopo aver ricevuto assicurazioni dal governo inglese su modifiche del regime carcerario, ma poi mai attuate in seguito, i prigionieri decisero per la linea dura. Avrebbero continuato, se inascoltati, fino alla morte. E così accadde. Diverse personalità cercarono di svolgere un ruolo di intermediazione, pure il pontefice Giovanni Paolo II fortemente toccato dalla situazione si offrì, ma la risposta ufficiale del governo inglese guidato da Margareth Thatcher fu: «Riteniamo che una mediazione tra governo e prigionieri, anche se condotta da organismi di altissimo livello, non rappresenti la strada giusta da percorrere».
Bobby e i suoi compagni, uno dopo l’altro, si lasciarono morire. Lo fecero perché rifiutarono di piegarsi a un’occupazione che consideravano illegittima delle sei contee dell’Ulster da parte dell’Inghilterra, per la loro sete di giustizia, perché il loro rigore morale e la loro integrità non erano in vendita.
Sono trascorsi 33 anni e la lotta per l’indipendenza irlandese continua. Bobby, durante quel durissimo periodo, scrisse un diario su piccoli pezzetti di carta che, segretamente, riuscì a far uscire dal carcere. Un racconto claustrofobico fatto di sofferenze, determinazione, angoscia, coraggio, paura e fede che divenne un bellissimo libro: Un giorno della mia vita. Un campionario di orribili maltrattamenti compiuti da uomini in divisa su altri uomini che non volevano indossare la divisa del carcere, perché non si consideravano delinquenti comuni, ma patrioti. Il corpo di Bobby cessò di vivere il 5 maggio 1981 alle ore 1.17. Le sue idee e il suo codice morale no. Vivono ancora oggi in tutti quelli che continuano senza compromessi a lottare per l’indipendenza irlandese. Le sue parole risuonano nei cuori e nella mente di chi combatte per l’ingiustizia e per la libertà del proprio paese: «….in Irlanda del Nord ognuno, repubblicano o altro, cattolico o protestante, ha il suo ruolo da giocare…..la nostra vendetta sarà il sorriso sui volti dei nostri bambini!». E intanto dopo secoli di dominio colonialista inglese sulla vicina isola di smeraldo, c’è ancora questo muro minaccioso fatto di violenze e terrore nella civile e moderna Europa, un muro che divide le 26 contee della Repubblica d’Irlanda dalle 6 contee dell’Ulster in un assordante silenzio, pressoché totale.

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